domenica 9 settembre 2018

Un fondamentale saggio di Divo Barsotti. Dostoevskij profeta e mistico

La casa-museo a Mosca dove nacque e trascorse la prima giovinezza lo scrittore che più di altri ha indagato il mistero dell’uomo. Un fondamentale saggio di Divo Barsotti.
«Fëdor Dostoevskij – scriveva Mario Vargas Llosa – visse in tante case e in tanti luoghi diversi – non si fermò mai per più di tre anni nello stesso posto – ed ebbe sempre l’ossessione di avere appartamenti ad angolo, con le finestre affacciate sulle due strade e vicino a una chiesa, in modo da poter ascoltare le campane, una musica che acquietava il suo spirito». Significativo questo particolare della casa con doppia visuale: a me dice l’attitudine di questo straordinario scrutatore degli abissi umani ad abbracciare con lo sguardo più gente, più umanità possibile.
Anche se gran parte della vita egli la trascorse a San Pietroburgo, dove l’ultima abitazione (nella quale anche morì nel 1881) è stata trasformata in museo, non va dimenticato che Dostoevskij nacque a Mosca, in un alloggio di servizio dell’ospedale Mariinskij presso il quale lavorava suo padre Michail Andreevich, anch’esso ora casa-museo grazie agli oggetti messi a disposizione dalla vedova dello scrittore e da altri.
Nella Russia pre-rivoluzionaria il Mariinskij era l’ospedale dei poveri, voluto dalla vedova dello zar Paolo I: un edificio neoclassico costruito nel 1806 su progetto di Giacomo Quarenghi, l’architetto italiano che realizzò una stupefacente quantità di opere a San Pietroburgo. In quell’appartamento di sole due stanze, anticamera e cucina Fëdor trascorse i primi sedici anni della sua vita imparando, attraverso i malati e le loro storie di emarginazione, la compassione verso i tanti “umiliati e offesi” trasferiti poi nei suoi romanzi.
Le descrizioni del fratello minore hanno permesso di ricostruire con i loro arredi alcuni ambienti: la sala da pranzo o “da lavoro” color canarino dove l’intera famiglia composta dai genitori e da sette bambini si riuniva per consumare i pasti. Qui, la sera, i più piccoli si appassionavano alle fiabe narrate dalla loro njanja Alena Frolovna, considerata un membro della famiglia, col risultato che già a tre anni Fëdor cercava di comporre storie intricate e paurose. Sopra un tavolo in stile “lombardo” è aperta una Bibbia le cui storie la madre Maria Fedorovna, prima insegnante dei suoi figli, leggeva loro.
Nella stessa sala, divisa da un semplice tramezzo di legno, era la cameretta dove Fëdor e il fratello Michail avevano i letti, in realtà due bauli. Nell’attiguo salotto color blu cobalto in stile “impero”, fornito di divano e libreria, la famiglia si riuniva dopo cena attorno ad un piccolo tavolo ovale per le letture serali ad alta voce, alle quali talvolta prendeva parte anche il severo padre quando non doveva attardarsi a descrivere patologie e a prescrivere farmaci. Non manca una chitarra: con essa la madre, insieme al fratello scapolo quando c’era, animava certe serate musicali eseguendo canzoni e romanze russe.
E poi foto di famiglia, giocattoli, oggetti d’uso quotidiano, la scrivania proveniente da San Pietroburgo dove Dostoevskij scrisse il suo capolavoro incompiuto, I fratelli Karamazov, con la penna, il calamaio, i suoi occhiali. Tutto un mondo intimo che lasciò tracce indelebili nella personalità del romanziere e dà un’idea della sua quotidianità nella prima giovinezza.
Aiuta invece a penetrarne l’animo un saggio di Divo Barsotti già apparso nel 1996 e ora riproposto dalla San Paolo: Dostoevskij, la passione per Cristo. Al principio di questo distillato delle riflessioni di una vita sul suo autore prediletto, Barsotti si chiede quale peso e valore possa avere un suo intervento nella sterminata bibliografia di Dostoevskij. “Modesto”, infatti, definisce il suo intento: assolvere un debito nei confronti di colui dal quale, nella propria presunzione e superficialità di giovanissimo, gli venne la spinta decisiva per la conversione a Dio e al Vangelo.
«La lettura di Dostoevskij – dichiara – mi insegnò che per essere un grande scrittore era necessaria una grande esperienza e non si può parlare di esperienza per chi non ha incontrato Dio o almeno non ha conosciuto il vuoto della sua assenza. L’opera di Dostoevskij è stata per me un messaggio e mi ha svegliato dal sonno. Non mi avrebbe svegliato e oggi non mi interesserebbe più, se Dostoevskij fosse stato per me solo uno scrittore. Invece la sua opera mi parla e mi nutre ancora».
Non solo semplicemente scrittore, sia pure grande. Cosa dunque? Continua Barsotti: «Egli è un profeta. Per lui mi ha parlato Dio. L’ho riconosciuto nel tormento di Raskol’nikov dopo il delitto; nella pietà e nella forza di Sonja. Mi ha disturbato ne L’idiota la figura del principe perché mi sembrava voler sostituire il Cristo; ma l’ho amato nell’umiltà e nella dolcezza di Sonja de L’adolescente, nella luminosa bellezza di Makar, l’ho sentito presente nell’umiltà di Tichon ma anche nell’orrore della morte di Kirillov e nella condanna di Stavrògin, finalmente l’ho veduto nello staretz Zosima e in Aljòša. Sempre Dio era presente. La sua presenza dava un nome a ogni uomo. Il silenzio non era vuoto, era il silenzio di Dio che riempiva di sé ogni luogo, ogni avvenimento, era la vita nella comunione con lui, era la morte nella volontà di rifiutarlo, di volerlo negare».
Profeta è per lui Dostoeveskij, perché annuncia la necessità della redenzione di Cristo in un mondo di fragilità e di peccato, anticipando la crisi di una società che pretende di fare a meno di Dio; e anche mistico per l’amore appassionato verso il Salvatore e per il suo vedere oltre le alienazioni dell’animo umano «una realtà più segreta e più vera», una possibilità insperata di corrispondere al disegno divino.
Solo un mistico può capire un altro mistico, perché solo l’amore (divino) è vera conoscenza. E Barsotti, che oltre ad essere scrittore, è stato monaco, sacerdote e fondatore della Comunità dei Figli di Dio, mistico lo era pure. Per questo nel suo libro dove esamina punto per punto i cinque romanzi capolavoro di Dostoevskij, i personaggi, e li confronta tra loro illuminandoli a vicenda per poi trarre le proprie conclusioni riguardo al messaggio lasciato dallo scrittore e al suo cristianesimo, Barsotti raggiunge profondità che costituiscono un fondamentale apporto agli studi senza numero dedicati al genio russo.
DI 

domenica 22 luglio 2018

Origini del monachesimo

 Primo monachesimo medievale
Nei secoli immediatamente successivi alla morte di Gesù Cristo, una cultura di il monachesimo si sviluppò e prosperò in tutto il mondo cristiano primitivo. C'era l'opinione crescente tra un gruppo di credenti che il modo migliore per servire Cristo fosse attraverso una vita di semplicità, ascetismo e isolamento dalla civiltà tradizionale. Durante tutto il periodo altomedievale, si formarono due diversi tipi di monachesimo solitario e cenobitico (comunale). Figure come Sant'Antonio, Pacomio e San Benedetto, in particolare, ha sviluppato principi per ntrambe le varietà di vita monastica che plasmato il corso del monachesimo in Europa per sempre. Sebbene la Chiesa cattolica e il papato a Roma esercitassero ufficialmente e formalmente potere sulla cristianità nell'Europa occidentale, i monaci di questo monaco in crescita il movimento ha largamente influenzato diversi aspetti della società altomedievale. Durante i primi periodo medievale, i monaci monastici erano venerati come eroi religiosi in tutto il mondo più grande società europea. Mentre la loro immagine fluttuava nel tempo, questi monaci medievali fortemente influenzato e contribuito alla cultura religiosa e laica in Europa per tutto il periodo medievale e oltre.
Monachesimo paleocristiano.
Una delle prime figure del monachesimo solitario fu Sant'Antonio, che visse a vita solitaria in Egitto durante il terzo secolo. Ma la vita come eremita ascetico era difficile su numerosi livelli. Di conseguenza, il movimento monastico cenobitico cominciò a guadagnare popolarità sotto leader come Pacomio, che creò una comunità monastica individui durante la prima parte del quarto secolo. Era responsabile Pachomius ideare alcune delle prime regole fondamentali per la vita monastica. Questi includevano il principio rigoroso di totale obbedienza ai superiori, così come la pratica e l'osservanza di castità e povertà. Nei primi decenni del quinto secolo, la vita monastica comunitaria continuò crescere ed espandersi in tutta l'Europa occidentale. I monasteri si sono stabiliti attraverso L'Europa ha esposto forme specifiche e distinte di ascetismo. Durante il primo medioevo periodo, il monaco italiano Benedetto (circa 480-543) è stato determinante nel modellare il contorni del monachesimo comunale. Il suo sistema, che divenne noto come il "Regola", ha influenzato i lineamenti della vita monastica e, in un certo senso, all'inizio del Medioevo cultura, per diversi secoli. La Regola di San Benedetto continua ad essere usata oggi a monasteri in tutto il mondo.
San Benedetto e la regola benedettina.
Sebbene il periodo altomedievale vedesse molti monaci monastici che cercavano di vivere uno stile di vita austero per realizzare la loro devozione a Cristo, San Benedetto con successo ha portato un tipo di uniformità e disciplina a un movimento altrimenti disparato. Durante Durante il suo periodo di studio a Roma, Benedetto è diventato sempre più sconvolto dal condotta ostentata della Chiesa cattolica a Roma, e ha deciso di ritirarsi da società interamente. Benedetto iniziò come solitario eremita praticando una versione estrema di ascetismo. Nel corso del tempo, ha guadagnato un certo numero di seguaci che hanno cercato di emulare il suo stile di vita. Alla fine lui e i suoi discepoli si trasferirono sulle montagne vicino a Roma, dove Benedetto ha creato una struttura unica per la sua comunità monastica a Monte Cassino (fondato nel 529). Prima che Benedetto morisse, ha prodotto una serie di linee guida per conto suo comunità monastica, che nel tempo è stata adottata da un gran numero di monasteri attraverso l'Europa. Il modello di Benedetto per la vita monastica ha promosso la comunità come un simbolo per il famiglia. L'abate era considerato il padre e tutti i monaci dovevano essere pensati come fratelli Ogni giorno era strutturato attorno alla preghiera privata e comunitaria, al sonno, lettura e studio religiosi e lavoro manuale. La vita quotidiana era principalmente centrata su a programma rigoroso di preghiera e meditazione, visto che i monaci dovevano riunirsi in otto volte ogni giorno per impegnarsi nella preghiera. 
La regola benedettina includeva, ma non lo era limitatamente alle seguenti direttive:
1. L'abate era dotato di piena sovranità e autorità entro un dato comunità monastica. È stato eletto alla sua posizione per tutta la durata della sua vita e non può essere sostituito
2. Ai monaci fu proibito di lasciare la comunità monastica.
3. Tutti i monaci erano tenuti ad esercitare un'obbedienza rigorosa e completa all'autorità riguardo a tutte le questioni legali.
4. I monaci sono stati consigliati di usare la parola moderatamente, ma il silenzio no mandato.
5. L'umiltà era divisa in dodici gradi, o passi, che si diceva conducessero a Paradiso. Questi includevano il timore di Dio, la pazienza, la confessione dei peccati, umili e discorso modesto e postura del corpo. Richiedeva anche ai monaci di percepire essi stessi come lavoratori senza valore che erano inferiori a tutti gli altri.
La regola di Benedetto ha permesso uno stile di vita meno severo rispetto ad alcuni dei precedenti e stili di devozione contemporanei promossi da altre figure monastiche come Pacomio. Ad esempio, i monaci benedettini hanno ricevuto due pasti completi, insieme a frutta e verdura fresca, e anche una piccola quantità di vino, ogni giorno.
Monachesimo nell'alto medioevo (1000-1300)
Dopo i primi secoli della diffusione dei monasteri europei, a il numero crescente di frodi e corruzione è iniziato nelle tasche di tutto il monastico mondo. I primi importanti segnali di riforma provenivano da un monaco di nome Berno. All'inizio decimo secolo, Berno fondò un monastero a Cluny, in Francia, che restaurò il Regola benedettina al suo intento originale. Nel tempo, tuttavia, il monastero di Berno, come molti altri, sono stati vittime di ricchezza, avidità e potere. Durante la seconda metà del XII secolo, si formò un nuovo stile di monachesimo e guadagnato popolarità sotto la direzione originale di Peter Waldo. La versione di Waldo di lo stile di vita monastico comportava azioni di predicazione e abbraccio della povertà. Questa filosofia venne definita mendicante monachesimo. Mendicante
il monachesimo ha promosso la povertà e implorando la carità. Oggi, monachesimo mendicante è principalmente associato agli ordini stabiliti da San Francesco d'Assisi (1182-1226) e San Domenico (1170-1221). Come risultato degli ordini francescani e domenicani, il monachesimo mendicante si diffuse ampiamente in tutta l'Europa medievale e sfidò il dipendenza dalla ricchezza e dal potere che si erano evoluti tra i monasteri tradizionali finiti tempo.
Impatto sulla cultura
La cultura monastica dell'Europa primitiva medievale ha portato alla produzione diffusa di manoscritti e alfabetizzazione religiose all'interno delle comunità monastiche. Monaci medievali erano alcuni dei membri più altamente alfabetizzati della società europea. Il considerevole la quantità di tempo e di energia che i monaci trascorsero leggendo le Scritture portarono all'esigenza di duplicare testi religiosi. I monaci dovevano essere in grado di leggere e scrivere, in modo che potessero copiare scritti religiosi in forma di manoscritto. I monasteri medievali vantavano prodigiose biblioteche e scrivere stanze in cui i monaci trascorrevano innumerevoli ore a produrre decorazioni manoscritti per i posteri. Inoltre, comunità monastiche e monasteri spesso fungevano da centri educativi, infermerie e logge per i viaggiatori medievali.
Anche i primi monaci medievali contribuirono notevolmente all'agricoltura e all'economia sviluppo dell'Europa. La Regola Benedettina includeva sessioni abituali di manuale lavoro, e come risultato, ristabilì un certo grado di dignità e spiritualità nell'atto del lavoro fisico. Nel corso del periodo medievale, è diventato di moda per potenti, famiglie elite per costruire monasteri sulla base delle loro proprietà. Ciò ha portato a forti legami tra i monasteri e le influenti forze civiche nella società medievale.
Riepilogo:
a) Dai primi tempi del cristianesimo, un movimento monastico si sviluppò dal desiderio tra tanti di vivere una vita austera e isolata come modo di esprimere la loro totale devozione a Cristo.
b) Il monachesimo comunale si è sviluppato come la forma più popolare del primo Medioevo
vita monastica. I monasteri sorsero in tutta Europa e con forza influenzato le più grandi comunità secolari intorno a loro.
c) Sotto molti aspetti l'enfasi monastica su alfabetizzazione, castità, lavoro manuale e a struttura egualitaria del lavoro ha portato a un'immagine del monaco medievale come un esempio ideale di carattere, e molti hanno cercato di emulare le sue caratteristiche e Caratteristiche.
d) Nel corso degli ultimi 1500 anni, i principi della Regola Benedettina hanno influenzato il corso e la struttura dei monasteri in tutta Europa e in tutto il mondo.
e) Nel corso del Medioevo, altri ordini monastici emersero come un tentare di riformare la corruzione e l'avidità che avevano cominciato a diffondersi ovunque La vita monastica medievale europea. Queste divisioni all'interno della comunità monastica ha continuato a riflettere la struttura dei monasteri europei nei secoli a Seguire.  

giovedì 5 luglio 2018

Il deserto è la strada della salvezza


Il tema del deserto è vasto quanto la storia sacra. È una realtà che si lascia conoscere solo sperimentalmente. Chi poi la vive, sa di non avere parole per dirne il sapore e la misura.

di Anna Maria Canopi OSB

Ma perché il cammino della salvezza passa proprio attraverso il deserto?
«Il deserto è monoteista» – diceva un profondo conoscitore della Bibbia (J. Daniélou). Il deserto è lo spazio della libertà per Dio. «È il noviziato che il Signore ha scelto per formavi i suoi profeti e apostoli» (card. Leger). È ciò che san Bendetto nella sua Regola definisce la scuola, il discepolato del servizio divino, la santa milizia di Cristo.
È dunque lì, nel deserto, dove l’uomo si trova disancorato da tutti gli appoggi umani, dove l’occhio non ha altro da vedere che lo spazio immenso e vuoto in ogni direzione, dove ogni suono è spento, dove il tempo sembra non avere più ritmi di durata, dove ogni attesa sembra divenire assurda, dove l’unico sguardo che si può incontrare è la pupilla dilatata del cielo, è lì che il Signore conduce colui che gli è caro e gli si rivela come l’Unico: «Ascolta, Israele… Io sono il Signore tuo Dio… Non avere altri dèi di Fronte a me» (Dt 5,6).
Il deserto è dunque il luogo dove la fede è messa alla prova e dove l’autonomia significa impotenza e morte.

martedì 26 giugno 2018

Trinità di Rublëv, a simbolo dell'unità con la Chiesa

Andrej Rublëv realizzò questa icona nel 1442 per la canonizzazione di Sergio di Radonež, fondatore del monastero della Trinità di San Sergio. Il committente chiese al pittore di trasmettere l’idea dell’unità della Russia intorno alla sua Chiesa, obiettivo perseguito dal santo. Solo da una fede profondamente vissuta poteva scaturire un’immagine cosi potente.
Un’icona non si dipinge, si scrive. Essa, infatti, rappresenta un testo il cui alfabeto sono i colori, le linee, le espressioni dei volti dei personaggi raffigurati e racconta, svela una verità della Fede. Gli iconografi sostengono di vivere un’esperienza spirituale, una visione interiore che traducono, poi, figurativamente. 
È il caso della tavola che Andrej Rublëv realizzò nel 1442 per la canonizzazione di Sergio di Radonež, fondatore del monastero della Trinità di San Sergio, il più importante centro spirituale della chiesa ortodossa russa. Il committente, l’egumeno, la guida del suddetto cenobio chiese al pittore di trasmettere l’idea dell’unità della Russia intorno alla sua Chiesa, obiettivo che San Sergio aveva perseguito per tutta la vita. Solo da una fede profondamente vissuta sarebbe potuta scaturire un’immagine cosi potente nella sua apparente e pacata semplicità.
Rublëv si rifece a una fortunata tradizione iconografica -considerate le molteplici rivisitazioni artistiche succedutesi lungo i secoli - alla base dello sviluppo della quale vi è, probabilmente la riflessione che Sant’Agostino fece a proposito del brano della Genesi, relativo alla visita dei tre angeli ad Abramo presso le Querce di Mamre. Tres vidit et unum adoravit, scrisse il santo filosofo di Ippona che interpretò questo episodio quale anticipo del mistero trinitario.
Tre figure cinte da aureole sono sedute intorno a un tavolo, al centro del quale sta il calice, simbolo eucaristico del sacrificio di Cristo. Come spesso accade, anche qui l’iconografo utilizza la prospettiva inversa ottenuta facendo convergere le linee di fuga non in un punto dietro al dipinto ma davanti ad esso, in primo piano. In questo modo non è lo spettatore che “entra” nella realtà rappresentata ma, viceversa, è il soggetto che si fa incontro all’osservatore. Dicevamo: una verità che si svela… Sullo sfondo si riconoscono una casa, dimora di Abramo, il “luogo” della Chiesa e una quercia, un albero, quello dell’Eden ma anche il legno della croce. 
Delle tre figure Dio Padre è quello a sinistra, speculare allo Spirito Santo sul lato destro: l’angelo al centro è figura del Figlio. L’ordine scelto dal pittore è, dunque, quello, in cui professiamo la nostra fede nel Credo. 
Non è graficamente evidenziato ma, guardando bene, i Tre personaggi sono iscritti in un cerchio, simbolo di perfezione, di eternità, di un amore che non ha né un inizio né una fine, rivolto, come i loro sguardi, al tavolo, forma invece perfettamente distinguibile, quadrangolare come la terra e il creato.
Anche i colori assumono, in questo caso, un ruolo importante.L’oro è la regalità propria di Dio e del Figlio in quanto sacerdote, cui appartiene anche il rosso, in virtù del Suo sacrificio. Il verde, simbolo di vita, è dono dello Spirito Santo. L’azzurro, o blu che dir si voglia, è proprio di tutta la triade perché sta a significare la vita eterna. 
Nel 1551, a Mosca, il Concilio dei Cento capitoli stabilì che l'iconografia di Rublëv fosse il modello per antonomasia per ogni pittura ecclesiastica e che la sua interpretazione della Trinità fosse, ed effettivamente ancora lo è, l’icona delle icone. E Andrej è venerato come santo dalla chiesa ortodossa. 

Articoli di Margherita del Castillo  http://www.lanuovabq.it/it/trinita-di-rublev-a-simbolo-dellunita-con-la-chiesa

martedì 12 giugno 2018

Il monaco non conosce altro fine che Dio


Il monaco non conosce altro fine che Dio, il mono che l'uomo che vive radicalmente questa ricerca del fine ultimo, nella sua ricerca è Dio stesso che lo spinge, è colui che cerca Dio, di qui la la necessità del silenzio per ascoltare nell'intimo la parola di Dio che lo incalza, il silenzio la solitudine sono piuttosto già la prima lontana percezione di quel Dio che vive nel cuore del monaco. Leclerc insegna che la realtà essenziale della vita monastica, consiste nell'essere una forma di vita religiosa che non è al confine secondario specifico, proprio per questa definizione che il grande studioso del monachesimo ci ha dato, noi ci sentiamo monaci, Dio chiama alcuni a vivere per lui nella preghiera nell'unità nella pace pur lasciando li in mezzo agli uomini, altri egli li chiama a vivere la medesima vita e la solitudine nel distacco effettivo da tutto, chi vive nell'eremo e in condizioni più favorevole per attuare la propria vocazione divina, chi vive nel mondo e fosse in condizioni migliori per rendere gli uomini testimonianza di Dio, gli uni e gli altri tuttavia debbono vivere un medesimo impegno, debbono rispondere alla stessa chiamata, la separazione dal mondo che è un elemento essenziale della spiritualità monastica, e in ordine ad una carità che deve realizzare la nostra unione più intima non solo con Dio ma con tutti i fratelli. https://www.youtube.com/watch?time_continue=92&v=NnXyZMYwp1k
                                                                           (Don Divo Barsotti)

domenica 3 giugno 2018

Don Divo Barsotti. «Viene l'ora ed è questa».


Stralci dall'esegesi spirituale, alle suore Benedettine.

La vita religiosa è sempre rapporto personale. Dice Gesù: "I Giudei hanno ragione, «ma viene l'ora ed è questa.....»" Non vi è passato, non vi è futuro, non vi è Gerusalemme..... tutto qui. Fate questo gioco con Nostro Signore, dicendo:"Quando sarò in Paradiso come si starà bene!". Dice Gesù all'anima: Dove il Paradiso? Se io sono qui, vi è ancora un altro Paradiso per te? Capite che cosa è di immenso gesta parola: «viene l'ora ed è questa».  Puoi pensare davvero ad altro tempo, ad altro luogo, ad altra vita di quella che ora tu vivi, se tu mi ricevi? «Viene l'ora ed è questa». L'adorazione al di fuori di quell'atto non esiste il Paradiso, non esistono i santi, non esiste più nulla. Egli è, ed è tutto per te. «Viene l'ora ed è questa» Imparatele a mente, sono parole veramente divine, l'incontro reale con Dio, una trasfigurazione del tutto l'umano,un possesso beato di Dio da parte dell'anima. «Viene l'ora ed è questa». Egli è li. Dove? Qui con te, ora. Perchè non lo diceva mica duemila anni fa Nostro Signore, lo dice ora a te: «viene l'ora ed è questa». Dio è qui ed è tutto per me. Ma notate bene: non siete voi che lo andate a cercare; ovunque voi andate, lo trovte, e li che vi attende. Se scendete ora in giardino, è li, è li. Se andate in cucina, è li. Se siete al lavoro, è li. Egli vi attende ovunque voi siete. Egli già è ad aspertarvi in quel luogo, perchè Egli ti vuole, ma vuole sopratutto donarsi.; perciò ti chiede una cosa sola: che tu lo riceva. «Viene l'ora ed è questa».         (Don Divo Barsotti)
https://comunitafiglididio.it                https://www.avvenire.it/agora/pagine/barsotti-cerco-dio-solo

domenica 27 maggio 2018

Card. Robert Sarah stralci di un omelia

Senza silenzio non c’è luce
Le tenebre si nutrono del rumore incessante di questo mondo che ci impedisce di rivolgerci verso Dio.
     Il mondo in cui viviamo ci sollecita incessantemente. Siamo costantemente in movimento. Corriamo il grande pericolo di considerarci degli “assistenti sociali”. Non porteremo più al mondo la Luce di Dio bensì la nostra propria luce che non è quella che gli uomini attendono.
San Giovanni «Ho scritto a voi, giovani, perché siete forti, e la parola di Dio dimora in voi e avete vinto il maligno. Non amate né il mondo, né le cose del mondo!» (1Gv 2, 14-15).
Cari giovani, se ad un anziano come lo era san Giovanni è permesso parlare direttamente a voi, vi esorto anche io e vi dico: “Avete sconfitto il maligno”.Combattete ogni legge che vada contro natura e che vogliano imporvi, opponetevi a ogni legge contro la vitae contro la famiglia, siate di quelli che prendono la direzione opposta. Abbiate il coraggio di andare controcorrente.